Domandandomi di occuparmi, insieme a Roberto Gini, di questo Festival di musiche Estensi, la città di Modena mi ha fatto un grande onore e mi ha permesso di realizzare un sogno che cullavo in me da molti anni. Al tempo stesso mi ha richiesto di raccontare la mia esperienza con la “musica antica” ed il mio percorso di “interprete”: è quanto mi accingo qui a fare, nella speranza – mi auguro non vana – di poter condividere questo sogno (in parte realizzato ma in gran parte ancora da realizzare) con il maggior numero di persone possibile.
Quando, venti anni fa, dopo essermi diplomato in Conservatorio, decisi di volgermi al cosiddetto “violino barocco”, pensavo di dedicare un certo limitato periodo di tempo a questa specializzazione, per poi essere in grado di occuparmi di tutto il repertorio, grazie all’impiego di due strumenti differenti. La verità è che sto ancora adesso “specializzandomi”. Dopo più di venti anni non solo non sono ancora ritornato a suonare il violino contemporaneo, ma più vado avanti e più mi appaiono chiaramente l’immensità e la complessità dei due secoli di musica di cui mi piace occuparmi: il ‘600 ed il ‘700. Non ho mai avuto la sensazione di essere arrivato a saperne abbastanza, di essere uno “specialista”, ed è così che continuo andando avanti per questa strada che non è un’autostrada, ma si biforca continuamente, e l’esplorazione dei cammini possibili è lunga e lenta.
Certo, la situazione intorno è cambiata di molto: venti anni fa eravamo in pochi, privi di mezzi e di credibilità, guardati con sospetto da una generazione di critici musicali legati al passato ed assolutamente impreparata ai cambiamenti che si stavano producendo.
Come “extraparlamentari della musica” noi eravamo stretti intorno a figure-simbolo, in Italia pochi e fra essi i modenesi Giorgio Pacchioni e Mirko Caffagni, i bolognesi Luigi Rovighi e Sergio Vartolo (ai quali vorrei qui testimoniare la stima e la gratitudine di uno che non ha dimenticato…). Vent’anni fa la mia prima visita alla Biblioteca Estense: da una porta magica usciva quel mondo che mi attrae e che amo, gli autografi di Colombi, i manoscritti decorati delle cantate di Stradella, le miniature di Galli, i bassi di Tonelli e tanti tesori che ubriacarono la mia immaginazione… ancora oggi, quando torno alla Biblioteca Estense, mi sembra di essere un bambino a cui vengano raccontate delle favole meravigliose.
Ma la rinascita dell’interesse verso la “musica antica” è nel frattempo diventata un fenomeno vasto e popolare a livello mondiale, e su questa necessità alcuni operatori musicali dovrebbero forse interrogarsi a fondo, poiché incarna a mio avviso l’esigenza di un’”ecologia” del suono, di un suono trasparente ed a misura umana, in cui la potenza in decibel non sia sistematicamente preponderante rispetto alla bellezza e alla grazia, e in cui l’intonazione sia pura ed avvertibile, non resa perennemente instabile da un’oscillazione continua di un quarto di tono; un suono flessibile e dinamico, esattamente come la voce umana lo è nell’eloquio, nella declamazione del linguaggio – la musica è linguaggio – e non bloccato dinamicamente nello sforzo di cantare o suonare sempre al massimo della voce… Forse il “vecchio” può tornare ad essere “nuovo” vivificando il nostro presente. La mia percezione è che il presente sia più solido quando si conosca bene il proprio passato e si abbia con esso un buon rapporto ; l’armonia col passato, a mio modo di vedere, è il solo mezzo che ci permetta di costruire un futuro illuminato.
In fondo, come disse il filosofo, noi moderni siamo solo dei nani seduti sulle spalle dei giganti che hanno abitato il passato, ed è solo per ciò che (forse) abbiamo la possibilità di vedere più lontano. Io non credo più che la storia sia in continuo progresso: se così fosse non esisterebbero più né guerre né povertà né bambini che muoiono di fame; se così fosse ci interesseremmo più alla pittura d’oggi che non agli affreschi di Giotto danneggiati dal terremoto, e se così fosse quegli stessi affreschi medievali sarebbero considerati opere primitive rispetto agli affreschi della Cappella Sistina, che a loro volta passerebbero in secondo piano di fronte agli affreschi del Tiepolo, e via proseguendo…
Così la mentalità diffusa secondo la quale la “grande musica” esista da Bach in poi, con particolare riferimento al XIX secolo, ha alla sua radice una ineducazione all’ascolto dell’“altra” musica, una mancanza di preparazione e di consuetudine con gli altri repertori musicali che ne impedisce l’apprezzamento completo dei diversi linguaggi e fa sì che nella stragrande maggioranza delle società concertistiche di oggi si esegua per lo più musica composta nello spazio di 150 anni, come se in quella fascia temporale fosse racchiusa tutta l’essenzialità del nostro patrimonio culturale…
Senza entrare nel merito dell’educazione musicale (è tuttavia impensabile che in un paese con la nostra storia artistica non debba esistere una scuola di stato in cui si insegni a livello specialistico la musica dal Medioevo al XIX secolo, e qualsiasi riforma non tenga conto di ciò sarà sicuramente una riforma monca che aumenterebbe il divario culturale con altri paesi della Comunità Europea…) direi che il lavoro consiste quindi nel ribellarsi ad una concezione interpretativa appiattita dall’uso di una stessa prospettiva estetica assunta quale comune denominatore perché considerata “più evoluta”.
La prospettiva estetica è, naturalmente, condizionata dagli strumenti che si usano: sono gli strumenti, scoperti, studiati, amati, che ci dischiudono le vie di tecniche artigiane, che guidano il nostro senso estetico e determinano i confini. I confini: ecco una cosa che a volte non riesco a capire nella pratica contemporanea degli strumenti classici.
Mi colpisce la violenza con cui ci si accanisce contro ogni nota, come se l’intensità di un’interpretazione fosse data dal fatto di scagliarsi contro un qualcosa: è come se con la musica oggi noi non dovessimo esprimere altro che tutta la nostra disperazione, la disperazione di un secolo che le guerre non le ha abolite, ma moltiplicate; è come se, anche quando facciamo musica, dovessimo urlare forte, più forte degli altri per imporci all’attenzione di tutti…
Quest’idea di caricare un enorme bagaglio di tensioni sullo strumento non mi piace, e l’ho abbandonata da anni; anche questo è stato per me un recupero “ecologico”: non solo e non tanto per il fatto di rinunciare alle sempre più moderne ed avanzate “protesi” violinistiche (spalliere e mentoniere dal design divenuto ormai spaziale), quanto per il fatto di non guardare più allo strumento come ad una cosa esterna, appendice scomoda ed artificiale su cui lavorare ed accanirsi.
Una nuova percezione è venuta via via crescendo e acquistando corpo, grazie anche al lavoro didattico: lo strumento siamo noi, noi stessi – non il violino che è un mezzo – e dobbiamo accordarci dentro; noi siamo la corda, e non dobbiamo essere né troppo molli (chè daremmo un suono sordo) né troppo tirati (chè produrremmo suono aspro e duro, rischiando di strapparci). Questa è una differenza di fondo: i musicisti di oggi tendono ad applicare una cultura tecnologica verso lo strumento, e vivono il proprio rapporto con la musica quasi esclusivamente in virtù del loro rapporto con il mezzo. Gli antichi studiavano il contrappunto, il cembalo e l’organo, cantavano fin da piccoli e portavano avanti lo studio di più strumenti, per poi privilegiarne uno, ma ogni musicista era in grado di comporre.
A questo punto – se state ancora leggendo – vi pregherei di dare il vostro contributo affinché termini come “filologico” e “prassi esecutiva” vengano banditi da tutti i discorsi che riguardino l’arte musicale, poiché rappresentano quegli steccati dietro i quali, per loro comodità di “catalogazione”, gli imbarazzati critici musicali hanno racchiuso chi si occupava di musica antica come si fa con quelle specie da conservare (che altri vorrebbero invece cacciare), ma soprattutto da compiangere. Vero è che alcuni di noi dietro quegli steccati vorrebbero rimanerci, ma io non ho mai nutrito eccessiva simpatia verso la pratica della facile etichettatura. Anche il termine “barocco”, appiccicato a posteriori, è palesemente inadeguato ad illustrare tutto ciò che, sotto forma di stili, movimenti e correnti contrastanti (se non a volte contrari) fra loro, è stato prodotto dalla cultura in più d’un secolo, ed è comunque improprio quando ci si riferisce al XVIII secolo.
Sotto questi termini si è spesso nascosto un certo qual senso di discriminazione, facendo passare quasi per scontata l’idea che un’interpretazione “filologica” sia costituita dal solo pure e semplice fatto di essere “filologica”, contrariamente ad una “vera” interpretazione di oggi, paragonabile ad un adattamento che “riscrive” il pezzo, come si vede di sovente nelle regie d’opera. Mentre il cosiddetto lavoro “filologico” è in realtà solo un lavoro preliminare di studio e di preparazione all’interpretazione (perché ci deve essere un’interpretazione personale!). Naturalmente chi si è preparato in modo specifico rispetto ad una determinata opera (in modo “filologico”…) ne darà un’interpretazione di segno diverso da un altro che non l’abbia fatto.
Ma voi avete forse mai visitato una mostra “filologica”? Credo piuttosto che abbiate visto dipinti antichi ben restaurati e ripuliti da ridipinture ottocentesche (quanti anni sono passati da quando Roberto Longhi parlava di “opere orrendamente guaste dalle ridipinture”?), o affreschi rinascimentali da cui siano state rimosse foglie d’edera posticce che prudentemente occultavano le pudenda di qualche Adamo ed Eva. Insomma: niente di più normale – oggi come oggi – del fatto di voler vedere chiaro nella volontà e nelle abitudini dell’autore prima di darne una nostra lettura.
Dopo venti anni sento ancora forte quella spinta, quel morso che mi imprigiona fra un desiderio a cui non riesco a dare un nome preciso (forse tanti nomi…) ed una sorta di nostalgia che si proietta nel futuro… lo so, non è chiaro ciò che dico, ma il fatto è che io mi ritrovo in questi due secoli di musica come in un labirinto di gusti, stili e pratiche di segno differente, tanti modi da esplorare, su cui ritornare ed ancora ritornare a spirali sempre più concentriche; anche se oramai ho capito che non c’è, non può esserci, un punto d’arrivo: la sola ricompensa possibile per chi fa ricerca è la ricerca stessa.
Immaginate solamente una cosa: i ricercatori specializzati nel ramo sono in grado di dirci soltanto ora con certezza quali sono i reali calibri delle corde di budello generalmente utilizzate dai violinisti fra il ‘600 e l’inizio del nostro secolo; queste corde sono sensibilmente differenti da quelle finora normalmente utilizzate dagli strumentisti “filologi”.
Possiamo quindi affermare che non è ancora mai stato inciso un solo disco di violino “barocco” con corde “filologiche” (ed altresì che le ultime parole fra virgolette costituiscono una mera vacuità…).
Come vedete, bisogna guardarsi dagli standards, da quella appagante sensazione di essersi impossessati di certezze etichettabili: il mercato si è appropriato del “fenomeno musica-antica” come di tutti i fenomeni che coinvolgano un interessante numero di persone, per cui è consigliabile a tutti coloro che vogliano dedicarsi alla musica del passato di non basarsi sui prodotti commerciali come i dischi, ma costruire la propria visione interpretativa attraverso un percorso che non può ammettere scorciatoie: questo percorso non può che essere lungo e tortuoso. E qui tocchiamo un tasto dolente: i tragitti lunghi e tortuosi non fanno più per noi, abituati ad andare velocemente, a scegliere le strade più rapide perché abbiamo sempre poco tempo (sempre di meno). Eppure in arte le scorciatoie non esistono, o meglio conducono a risultati che possono essere apprezzabili (forse) solo nel breve termine, non certo nel lungo. Ci sarebbe da riflettere se la velocità incarni sempre e comunque un valore. D’altra parte la possibilità di usare l’aereo non nega certo validità al fatto di montare a cavallo.
Ci vuole tempo: col tempo riusciamo a penetrare i significati di una notazione musicale che è simbologia, che è poesia o danza e che si lascia decodificare grazie all’impiego di una fantasia sempre guidata da conoscenza. Ecco: acquisir conoscenza ed esperienza tali da renderci capaci di distinguere il confine fra libertà di interpretazione ed arbitrio soggettivo. Non fare della musica di un altro il chiodo al quale si appendono le proprie glorie narcisistiche. Non eseguire certe musiche perché il mercato le richiede, ma solo se si crede in quelle musiche. Vivere piuttosto ai margini, forzarlo, quel mercato, stimolare la gente, i molti, a conoscere, non più solo a riconoscere, ma soprattutto non commettere l’errore storico di considerare l’oggi più importante e più evoluto dello ieri, perché quello che ora è attuale e bello verrà inevitabilmente spazzato via da un prossimo secolo, da un altro gusto, da altre strade interpretative…
E allora, forse, l’unica cosa che possiamo fare consiste nel cercare il nostro posto in seno ad un’armonia più generale, più universale.
Quando è nato il mio bambino (che ora ha quattro anni) ho cercato di immaginare il mondo in cui avrebbe vissuto, ho pensato ai tempi che si preparavano, alle cose ed alla cultura con cui sarebbe venuto a contatto e da cui sarebbe stato condizionato e segnato, ho riflettuto sui divari generazionali fra lui ed i nonni, fra lui e me, e mi sono chiesto: «mio Dio, come farò a spiegargli che il mio lavoro consiste nell’occuparmi di una forma di cultura così “vecchia”?
Quali mutamenti saranno intervenuti nella società e nelle mentalità quando lui andrà a scuola e comincerà ad avere degli amici con cui confronterà la propria vita? Potrà mai considerare suo padre al passo con i tempi, oppure mi vedrà come una figura obsoleta, arretrata? Potrò mai essere un “maestro” per lui?». La risposta non è venuta
Però ero cosciente del fatto che per il bambino il padre ha un ruolo preciso ed importante: quello di porgergli la realtà e dunque il senso del limite, le strutture del pensiero, della conoscenza, dell’indagine.
Mi sono guardato intorno con maggiore attenzione, ed ho sentito di vivere in un mondo in cui tutti quanti facciamo sempre più fatica a concentrarci: le cose (tante, troppe?) spesso ci scivolano e ci rimbalzano addosso per i ritmi elevati con cui tutto si svolge e passa di attualità.
Ho pensato che insegnare a vivere bene forse significa anche trasmettere la capacità di concentrazione su di un punto preciso, la percezione che nel più profondo di una goccia d’acqua si possa contemplare l’immensità di un oceano.
Un giorno, insieme a molti della mia generazione, ho sognato di poter cambiare questo paese: oggi credo che, per rigenerare la cultura e la mentalità di un paese, anche la musica “antica” abbia una sua utilità e funzione.
Così, col tempo ho cominciato a capire che oramai i giovani non cercano più maestri, ma testimoni.
E allora ciò che riusciamo a trasmettere non è tanto quello che sappiamo, ma ciò che siamo.